Mummie e cuori aragonesi, San Domenico Maggiore e le sue arche

L’arrivo a Napoli dei Padri Predicatori, ovvero i Domenicani, fu caldeggiato da Papa Gregorio IX , “essendo cominciati a disseminarsi in questa fedelissima città di Napoli alcuni semi di perniciosa eresia” .
A detta del pontefice, a causa della protezione di Federico II erano aumentati i casi eretici e bisognava porvi rimedio; i Domenicani vennero dunque ospitati nella “badia” benedettina di Sant’Angelo a Morfisa fondata dall’omonima famiglia, e che già possedeva oltre la chiesa, un ospedale per poveri e un giardino.
La “badia” sorgeva proprio sul terreno tra l’ingresso odierno da Piazza San Domenico e una parte dell’attuale Sagrestia; la convivenza fra Benedettini e Domenicani dovette essere molto propositiva se i primi cedettero definitivamente nel 1231 la badia ai secondi, o forse il potere di questi ultimi era in vertiginosa ascesa.  Si chiuse così una lunga esperienza dei monaci di San Benedetto la cui presenza era documentata fin dal 1116.
Come ben sappiamo, fu Carlo II d’Angiò a volere l’ampliamento di San Domenico Maggiore, e dopo i rovinosi terremoti del 1446 e 1455, Alfonso d’Aragona ne volle le scale sulla piazza da lui ricavata: erano scale oblique, leggermente inclinate verso la guglia (che sarebbe arrivata beninteso solo dopo il 1656) e non come le vediamo oggi, frutto dell’intervento dei primi anni Trenta del ‘700.
Dopo un disastroso incendio agli inizi del ‘500, le prime arche vennero traslate nel 1594 nella primitiva Sagrestia per volere di Filippo II di Spagna; è coi primi anni del ‘700 che si costruisce il passetto con baldacchino di broccati che vede sospese le 42 casse a oltre 4 metri da terra, nella sagrestia ideata dall’ingegner Nauclerio e che Francesco Solimena affrescherà. A Francesco Antonio Picchiatti venne affidata intanto la costruzione della Sala del Tesoro (1678) decorata poi dai massicci armadi di noce (d’Arbitrio 2001).
Sui “passetti dei morti” vennero allocate quindi le arche di Alfonso I d’Aragona -quest’ultima già vuota per via della restituzione della salma del sovrano alla Catalogna- accanto a Ferrante I e II e alla di lui moglie, Giovanna IV; seguirono Isabella d’Aragona e Maria d’Aragona, e via via tutte le altre sepolture: dal 1458 fino al 1811 la Nuova Sagrestia accolse illustri defunti, ultimo dei quali, il corpo di Alessandrin Audrien, nipote di Gioacchino Murat.
Con gli anni ’80 e le analisi dell’Università di Pisa, si mise mano ai corpi dei sovrani e notabili per lo studio dei loro resti cui seguì dettagliata analisi dell’abbigliamento poco meno di una ventina di anni dopo.
A leggere le analisi paleontologiche, ci furono molti casi di imbalsamazione artificiale: Ferrante I e II, e probabilmente Alfonso I, decisero di eternarsi con un trattamento tutto particolare: una lunga incisione addominale li privava delle viscere, mentre un taglio posteriore circolare faceva in modo di asportarne il cervello. Calce, sostanze resinose, materiale terroso e argilloso, foglie e rami vegetali, stoppa, spugne e lana vennero utilizzati per ottenere drenaggi, trattamenti e protezioni o imbottiture per i corpi deposti.
Gli studi contemporanei hanno esplorato 38 arche, di cui 8 vuote, e una con deposizione doppia; sono stati identificati con sicurezza 18 corpi; su 27 casi le deposizioni erano ancora intatte e 15 avevano subito un processo di imbalsamazione (prof. Gino Fornaciari)
Siamo anche venuti a conoscenza delle malattie che questi corpi avevano patito in vita: Isabella d’Aragona, probabilmente morta di sifilide (visto lo stato molto alterato dei denti e il processo di avvelenamento da mercurio, allora considerato rimedio), vaiolo, artrosi gravi, tumori e polmoniti.
Una cosa è certa: i Domenicani accolsero e probabilmente coadiuvarono i processi di mummificazione dei corpi, del resto è testimoniato come cantarelle o scolatoi, siano presenti anche sotto la Sagrestia della basilica domenicana; da esperti sapienti nell’arte delle Spezierie (famose sono quelle di San Domenico e della chiesa del Monacone alla Sanità), essi in più momenti della storia di Napoli, aiutarono tutti quelli che poterono permettersi costosi trattamenti, per la conservazione dei corpi.
Se la pratica a Santa Maria della Sanità è accertata con la presenza degli scolatoi agli inizi del ‘600 e la macabra usanza di ricostituire il corpo con la pittura e il cranio del defunto infisso nel muro, a San Domenico Maggiore la preoccupazione per la conservazione delle spoglie mortali illustri, era presente da almeno un secolo e mezzo.
I Domenicani furono certamente tra gli ordini più attivi e occupati in tal senso: il clima favorevole, il sottosuolo di tufo facilmente escavabile, aiutarono tecnicamente l’attività lucrosa di trattare i cadaveri. Oltre alle sepolture dei Cappuccini di Vienna, che restano comunque successive, Napoli vanta la conservazione del cuore di tre sovrani (Carlo II, Alfonso e Ferrante), spariti nei loro reliquiari nel decennio francese.
Certo, per Alfonso e Ferrante possiamo credere che il cuore fosse estratto durante l’imbalsamazione e dunque conservato; resta leggenda, forse, quella di Carlo II.
Occorrerebbe ancora studiare, per pervenire a dati certi: da Benedetto Croce alle analisi paleopatoligiche, c’è ancora molto da fare per uno dei luoghi più suggestivi al mondo.







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