Il semplice stare del tempo a Napoli (S.Giovanni a Carbonara)

Per chi non conosca Napoli, faticherà comunque ben poco a riconoscerla da questa prospettiva.
Dalle scale di San Giovanni a Carbonara, Napoli può diventare familiare come la vista della casa materna o della nonna la domenica di pranzo familiare.
Lo scalone sanfeliciano a doppia clessidra, come uno strano e aggraziato uccello con due paia d'ali, ha tre piani di riposo: tre prospettive di fiato e di ascesa alla collina che un tempo fu la discarica della città: ad carbonetum.
Un fiato, uno sguardo e la ripresa a salire per ogni gradino di piperno nero, fermato dall'ocra perennemente scolorito dei bassi muretti laterali: essi non sono parapetti, nè corrimano. Sono come i punti che delimitano un segmento, l’alfa e l’omega del gradino; i limiti in cui l’occhio si arresta ad ogni pedata. Quello che si vede da San Giovanni a Carbonara va contenuto e decantato.Trattenuto un poco in mente; possiamo dire che abbisogna di dighe e chiuse, quello che si può vedere da ogni gradino di piperno.
San Giovanni a Carbonara nasconde tre chiese e tre chiostri; Santa Sofia come un sottoscala sacro è la parrocchia dove altrove ci sarebbe cripta.
La "Pietatella"si incastra di lato, appena a sinistra di chi si accinga a salire sulle ali della doppia clessidra: ex-ospedale militare, non può non rammentarci le giostre e i tornei feroci che mettevano famiglie ed eroi l'uno con l'altro armati.
In fondo questa è una strada di sangue, larga ancora quanto lo spiazzo che accoglieva le faide e chiudeva in alto il limite estremo della città, verso quello che fu il bel campanile dei SS.Apostoli prima di cadere sotto lo scrollone tellurico d’Irpinia.
San Giovanni a Carbonara, con i suoi alberi e gli ulivi messi da poco davanti all’entrata, appare sempre una chiesa da poco, almeno all’occhio più inesperto: chi potrebbe mai pensare che dietro quel cancello e verso la scala che anche poco si vede, giace, su una montagnella di quelli che furono rifiuti da incenerire, uno del capolavori di pieno Umanesimo e Rinascimento?
La meno vistosa delle chiese napoletane, la più laterale o di sbieco; la chiesa dimentica al margine del capolavoro assoluto.
Narrare i volumi cubici delle forme rinascimentali, la cappella abside con le sue statue sospese, il portale quattrocentesco di Santa Monica, o la Cappella Seripando in cui il Vasari ha fissato la sua crocifissione, è un esercizio di stile: ma basterebbero queste due righe a dire molto di questa chiesa, eppure altro sovrasta la narrazione; il mausoleo di re Ladislao Durazzo-d’Angiò.
Questo re, l’ultimo della dinastia angioina, re Ladislao il Magnanimo, sta a cavallo a spada sguainata a condurre un fantastico esercito verso la sua idea di Italia Unita: nel 1408-9 mosse al papato, in piena crisi avignonese, una guerra che fece tremare le sorti di Firenze e Siena. Le due città pensarono ad allearsi contro il re angioino pur di salvarsi, e Bologna pensò di unirsi contro il pericolo.
Come Guidoriccio da Fogliano ma di pietra, il mantello e le decorazioni angioine su sfondo blu e gigli d’oro di Francia, Ladislao conduce la memoria e se ne sta assiso in gloria di potenza, poco più in basso accanto alla sorella che ne volle il monumento: gli ultimi sovrani di quasi due secoli francesi di dominio, fratello e sorella, se ne stanno a guardarci immobili.
Le Virtù scolpite, allegorie dell’epoca (1428) hanno la pretesa di sostenere il casato e il feretro del re dormiente al terzo registro, sotto un benedicente vescovo: Ladislao fu anche scomunicato, ragion per cui, appena poterono, gli restituirono la santità della missione, visto che il funerale dal Castel Capuano fu fatto in fretta e furia in una notte agostana di mezzaestate.
Il polittico-mausoleo di pietra di Re Ladislao, opera scultorea e pittorica che non poteva rappresentare meglio l’ambiente napoletano nel corso del pieno Umanesimo, sta davanti la cappella dell’amante Sergianni, il Caracciolo coraggioso che comandò per molti anni le decisioni della regina Giovanna II, ingiustamente appellata Regina di Paglia, in un’epoca spietata e crudele di baronie e e congiure ducali. Prendeva fuoco questa Paglia troppo spesso per i detrattori, ma pure, governare in quel momento, era più difficile che a cercare il proverbiale ago.
Ma, io non desidero parlare dei capolavori che la chiesa-mausoleo contiene; impossibile rendere l’azzurro-blu delle maioliche del 1440, o i colori e le prospettive del Perrinetto e del Besozzo, la cappella Somma che chiuse l’ingresso principale per sempre, o la bellissima cappella Caracciolo da Vico. Dovete andarci voi stessi a immergere gli occhi dentro la città ideale napoletana: quello che di meglio facemmo nel corso del 1400, più o meno sta tutto qua dentro. Con l’aggiunta che poi proseguimmo a fare, come è prassi a Napoli, per cui San Giovanni è si, una chiesa Trecentesca, ma anche tutto il resto delle epoche.
Così quando salite le scale di piperno chiuse da un abbraccio di alto muro color ocra, e più sopra ancora vedete una strana facciata che non può essere l’ingresso -penserete immediatamente- allora lanciate un occhio al panorama di fuori: Napoli di palazzi e sali-e-scendi, di scale geniali che fanno riposare la vista al troppo, Napoli termitaio e folla compressa; Napoli di soluzioni architettoniche che risolvono non l’orizzonte, nè gli elevati, ma lo stare, il semplice stare del tempo.

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