Rebecca
Horn, l’artista tedesca delle ormai note capuzzelle di Piazza del Plebiscito quando
la Piazza era un grande palco dell’arte contemporanea (2002-3), ha 74 anni. Forse
oggi l’ameremmo di più se reinstallasse le sue anime pezzentelle, quelle del
purgatorio della Fontanelle che le diedero l’ispirazione per sospendere le
aureole che solo poche di esse si sarebbero guadagnate in un ideale paradiso. Un’esistenza
spesa a indagare il corpo e le sue estensioni, tra pittura, scultura, disegno,
fotografia, performance e cinema, e soprattutto le sue installazioni semoventi.
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R.Horn 1972 "Finger Gloves" |
Allo
Studio Trisorio (via Riviera di Chiaia 215) storica sua casa napoletana, sono
in mostra sei nuove sculture semoventi e vari disegni. Non si tratta solamente
di ricercare la bellezza del singolo oggetto, siano le farfalle che aprono e
chiudono le ali di
“Passing the Moon of Evidence” (2017) che danno il titolo
alla sua personale, tra rami d’oro e cerchi da cui non usciranno mai pur sbattendo
le ali nelle loro teche, isolate come la ricerca del senno di Orlando sulla
loro luna, o negli specchi rotanti di
“Im
Kreis sich drehen.Aus dem Mittelalter entwurzelt” (2017),
ovvero nelle due aste di ottone piantate nelle scarpe di bronzo medioevali fissate
al suolo.
Ci aspettiamo sempre che
l’arte ci sorprenda a tutti i costi, spettacolo di sé per il nostro
intrattenimento, e quasi mai invito alla riflessione.
Ma con Rebecca Horn i
movimenti lenti, ripetitivi fino all’ossessione -gli stessi dei meccanismi di Spirits-Spiriti,
al Madre di Napoli- sono congegni che fanno meditare l’esistenza che fugge, e
che forse troppo spesso diamo per scontato. Personalmente ho sempre amato la
ricerca dell’artista tedesca, vuoi per le sue più antiche puntate: è lei che si
inventa in fondo
Edward Mani di Forbice (Edward
Scissorhands) il personaggio melanconico del noto film di Tim Burton del 1990.
Nelle sue più antiche “
Finger Gloves” del 1972 le dita si guadagnano lo spazio
fisico oltre il corpo, e Rebecca paventa la possibilità di allungare le
funzioni ideali che possono arrivare cruentemente alla mano di
Freddy Krueger. Mi perdonerà
l’artista se faccio un paragone noto ai più per sottolineare la sua ricerca sul
corpo degli anni ’70 quando pure con “Einhorn” (Unicorno) giocando col suo nome e la sua esistenza, attraverso stringhe e
lacci che la legano alla sofferenza di Frida Khalo, ci immerge in un mondo che
va oltre la fantasia anatomica umana.
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“Aus dem Mittelalter entwurzelt" Studio Trisorio |
La sua condizione fisica è sempre
presente nei lavori; da quella solitudine che la costrinse a lunghe cure in gioventù
fino all’oggi, e che l’ha portata a riflettere sulla morte a Napoli più che
altrove: una morte barocca, e dunque intimamente partenopea, fatta di specchi
che rammentano la vanitas e la preziosità degli altari seicenteschi di madreperla.
I suoi automatismi hanno sempre qualcosa di molto fragile: farfalle, rami, la
delicatezza di rotelle che talvolta si inceppano, che si confrontano con
l’inesorabilità del tempo e della sua consunzione, tra la pietra porosa di
vulcano colorata come le ali di un lepidottero. Anche quei suoi dipinti,
macchie sparse di colore in cui non è necessario sprecarsi a cercare un senso, sono
semplicemente un appello a godere della vitalità dello spargersi delle tinte su
un’altra superficie lunare d’esistenza. Con Rebecca Horn, c’è l’invito costante
a prendersi una pausa dalla meccanicità terrestre del cervello: l’ipnosi delle cadenze
degli oggetti, le sue allegorie lontane, ne fanno un’artista dall’intima trama
che ha bisogno di noi per funzionare. La vita si svolge nella materia: negli
anni la sua ricerca d’estensione è passata dal corpo alle cose solo in apparenza.
Due paia antiche di scarpe pesanti, sono infisse al suolo da due lucidi pali,
più lunghi di ogni gamba possibile: le aste bloccano l’idea del corpo che
vorrebbe muoversi e non può. Rebecca è nascosta lì, in una leggerezza che la
immobilizza e ferma noi spettatori. L’opera che parla di richiami medievali è
una tortura inflitta da qualche parte al suo corpo e di riflesso a noi.
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Studio Trisorio, R.H. |
Quelle
scarpe non possono avanzare davvero, ma riescono a farlo lo stesso, e lo
capiamo bene. E’un’altra dimensione, un'altra ragione e senno perduto. Rebecca
non vuole convincerci che ci sia per forza il bello, piuttosto l’idea che tutto
scorra e siamo noi le macchine anatomiche fatte di materia effimera di mondi
paralleli. Allo studio Trisorio c’è ancora una sua esortazione gentile, fino a
settembre 2018, ad isolarsi per un attimo con lei. C’è vita sulla sua luna
fatta di oggetti, esperienze e materie terrestri, è evidente.
« Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza. »
(#AlanTuring, Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950)
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