Iconopatia: la malattia dell'immagine sempre vera

The little red ridding hood – Happy end © Thomas Czarnecki
Finali alternativi per le note eroine disneyane nelle foto del francese Thomas Czarnecki : Ariel, Jasmine, Aurora, Pocahontas, Cenerentola o Biancaneve che finiscono malissimo.
Schiacciate, smarrite, avvelenate, stramazzate al suolo: è la frantumazione del mito della favola che finisce sempre bene, il lieto end,  l‘happy che manca.
Una operazione visiva non estremamente nuova, ed incentrata comunque sul senso, significato e significante dell’ icona: secondo il semiologo e matematico Charles Sanders Peirce (1839-1914), l’icona è uno dei tre tipi principali di segni, distinto da un rapporto di somiglianza attraverso una qualità o una configurazione determinata dell’oggetto significato.
In genere lo scatto prevede oltre ad una donna, un inequivocabile segno distintivo: scarpetta/Cenerentola, coniglio/Alice, pinna caudata/Sirenetta, in maniera da eliminare ogni dubbio di riconoscimento del personaggio alla prima visione.
Ma immediatamente, nell’attimo in cui il cervello codifica che il corpo giace spiaggiato, e la coda è tutta legata da una corda, entra in gioco l’antitesi visiva: non è più la Sirenetta, quella Disney tutta perfetta che abbiamo in mente, ma è una Sirena morta, soffocata. E’ una Sirenetta alternativa.
Nel caso di una sconsolatamente seduta a capo chino bambina-ragazza, e del bianco coniglio ai suoi piedi: è Alice, ma un’Alice che si è perduta in una stanza diruta. Quindi non appena vediamo un cestino di mele rotolate a terra, nel caso dell’artista citato, ci viene in mente immediatamente Biancaneve o Cappuccetto Rosso, solo che il problema è che il fotografo francese ci fa vedere qualcosa che interrompe la nostra normale visione della favola: una bottiglia tra le mele, e così infrange quel rapporto di somiglianza che è nella nostra memoria.
Lo interrompe nel bel mezzo del nostro ricordo, per dirottarlo altrove: e su una ben più truce realtà.
Dunque, l’autore dello scatto ci scalza e sorprende, mostrandoci il paradosso di certe situazioni: ci porta verso una antitesi mentale, ovvero un contrasto esplosivo tra il buono che ci aspettiamo e il cattivo che ci viene mostrato.
E’ tipico delle immagini usare le figure retoriche: nel narrarci con un solo scatto il potenziale dark-end, il fotografo usa un procedimento di sineddoche: la parte per il tutto, e “provate ad immaginare se” o addirittura ci suggerisce “che davvero è così piuttosto che cosà”. E dunque ci porta per mano visiva a crearci davanti un’idea alternativa delle nostre eroine preferite in situazioni estreme: nel progetto “Brutte, sporche e Principesse” (http://www.repubblica.it/persone/2012/01/25/foto/principesse-28747787/1/)  l’analisi dell’uso variegato delle figure retoriche andrebbe estesa scatto per scatto, poichè non in tutti i lavori è usata la stessa figura retorica come alternativa, ma certamente lo è, invece, il processo di interruzione dell’icona come immagine positiva acclarata.
In queste crisi visive e di senso di Thomas Czarnecki, vanno letti i nuovi messaggi circa l’uso del corpo delle donne: veicolati appunto, e dunque trasportati verso un altrove di significato.
Mariel Clayton, Barbie7
Nell’operazione di far saltare a forza di dinamite-dettaglio i canoni di somiglianza tra la donna mostrata e l’icona mentale, che viene dunque proiettata fuori dal suo Olimpo narrativo dell’happy finale che ci aspettiamo di vedere e che tutti conosciamo, si produce una crisi nello spettatore: la sua immaginazione deve arretrare, riformulare un passo indietro la codificazione e riflettere ( “ho visto bene?" dice il nostro cervello) e così ritorna una donna forse normale davanti ai nostri occhi, forse ancora Biancaneve, o forse no: potrebbe o non potrebbe essere lei; “e se invece di così, è andata cosà?”
Più semplice in apparenza è l'operazione di  Mariel Clayton: la sua Barbie sociopatica, isterica e omicida è sempre la sola protagonista degli scatti talvolta osceni che la immortalano: qui siamo alla dissacrazione del'icona, al ribaltamento di senso.Lei stessa lo chiama "umorismo sovversivo": ed infatti sovverte la nostra idea della nota bambola e della sua iconicità.
Se ci aspettiamo sempre lo stesso significato di bello e buono, bianco o nero dalle immagini, siamo affetti da iconopatia: la malattia dell'immagine sempre vera sulla rete. E invece si chiama ambiguità semantica, la possibilità di più significati: è lì che può e deve inserirsi l’arte.








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