Impossibile di stasi (Ederlezi a Napoli)

Non è possibile che Napoli sia immobile.
Non è nella sua indole irrequieta, ma qualche volta può apparire più ferma del mare in bonaccia, quando è liscio come un olio e la luce acceca di riverbero.
Succede più o meno quando in un vicolo, o sotto un portico come mi è capitato di vedere, per una specie di accordo sotterraneo, le persone decidono di riflettere insieme senza dirselo, forse sui propri guai.
Allora tu vedi sguardi che si perdono senza tempo, corrucciamenti e linee di visi che cercano di aggrapparsi attorno, ai muri scrostati millenari -sarà per questo che Napoli ha l’aria di eterna consunzione?
Questa aria di afflizione ti dà il tempo di scattare un dagherrotipo mentale che è l’antenato della fotografia: ci vuole una lastra di rame interiore pronta, uno strato d’argento che si applica per elettrolisi -e quindi una vostra personale energia- una luce ai vapori di iodio che non è facile da cogliere, e un’esposizione lunghissima; almeno dieci-quindici minuti per fissare l’immagine.
Raramente si possono fissare dagherrotipi interiori a Napoli, visto il lungo processo e l’immobilità richiesta dei soggetti, ma, qualora capiti, se ne colgono faccende rilevanti, come l’identità di muri e facce, e forse la stessa ragione per cui non vale la pena mettere mano a restailing di grandi portate degli edifici.
Capita che l’aria allora sembri immobile, come eterna, millenaria nell’istante: è colto davvero l’attimo presente, notoriamente assente nel pensiero filosofico partenopeo, perchè non è vero che Napoli tende a scordare il passato a favore di un presente epicureo -pace al bel pensiero di Bellavista- ma piuttosto a lanciarcisi capo e corpo ogni secondo. Non sono gaudenti i napoletani, non tendono a cancellare i guai: sono malinconici, serafici, nostalgici. Sono proiettati per DNA nel passato, e fanno di loro stessi e della loro città una eterna proiezione all’indietro.
Non a caso San Gennaro è il santo patrono: il santo bifronte che guarda indietro e avanti, e non in faccia: solo quando lo si insulta, la faccia ‘ngialluta deve guardarvi in viso, possibilmente in Cappella del Tesoro.
E dunque, se non può stare ferma, Napoli non può cogliere l’istante.
Certo, come ho scritto, può capitare. Ma è un’anomalia che richiede una formula magica, una predisposizione degli eventi, una quiete che raramente si respira nelle strade e per i vicoli: più facile a cogliersi nelle sole architetture che nella interazione tra esseri umani -Napoletani- e la loro città.
Se fosse davvero epicurea, Napoli non avrebbe una sirena per mito, nè il nome che porta e che indica un eterno divenire, una mobilità infinita e, poichè si chiamò anche Palepolis, vale lo stesso discorso del suo santo: non conosce nome al presente, ma sempre proiezioni violente in avanti e indietro.
Con questi corrugamenti del tempo, veri e propri buchi neri dello spazio-temporale per le altre normali città, Napoli è impossibile di stasi. L’ammuina interiore, l’eterna frenesia, l’andare di pressa, il fuire, l’arteteca, e mille altre sinonimi le si confanno più che una epicurea ricerca di felicità nell’attimo; pare che la città e i suoi abitanti siano già proiettati al superamento del problema: la nottata che addà passà, che più scura della mezzanotte non si può fare, che cosa è mai se non il segno del divenire senza istante?
Passando sotto i Portici d’Angiò, l’altro giorno, mi è parso di cogliere un momento decisivo per i miei pensieri: due anziani sedevano ognuno distante per fatti suoi dall’altro. Il primo stava a fumare una stanca sigaretta sotto al Pulcinella che anima il cartello e la sua recente nuova definizione : “Via del Fico al Purgatorio/Via d’Arte. L’altro un pò rilasciato sulla sedia, difronte alla colonna centinata: ma proprio dirimpetto alla colonna, nel senso che essa era il suo  unico panorama visivo. E la guardava con aria assorta, e diventava nel guardarla colonna stessa: eccola, l’interazione naturale tra gli abitanti e la città, quando i Napoletani si fanno vecchi come lei di millenni, quando diventano architettura di carne in riflessione molle.
Eccolo l’attimo presente, carpito che fugge avanti o indietro, col peso millenario un pò obbliquo, un pò da centinare come la colonna.
Nel dagherrotipo di una città Rom, ci sono cinque passi fondamentali: pulire bene la lamina di rame affinchè riceva lo strato d’argento che viene applicato con cura, un passaggio in camera oscura di dentro per prepararla a ricevere la luce di ciò che volete fermare, e quindi al tempo giusto d’esposizione, quello dell’attimo che non può più fuggire, eppoi togliere delicatamente lo strato che è diventato immagine.
Capirete bene che è un’opera delicatissima e fragile di risultato.


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