La bellezza sprecata del paesaggio (sta dentro di noi)

Mutuo il concetto dall'amico Franco Arminio: esiste una bellezza sprecata del paesaggio, anche urbana -benchè lui si riferisca alla splendida Irpinia-  che l'allucinazione e il disamore per noi stessi, ci ha annientato alla vista.
E' solo il segno della nostra identità perduta, prima dentro, eppoi anche fuori.
Ovviamente questo disamore è più in generale italiano, ma a Napoli è visibile fisicamente nelle persone e nel rapporto che esse hanno con la metropoli in cui sono nati e vivono.
L’avidità scellerata della mani sulla città, dei progetti della politica dei bacini di voto -penso ai disastri dell’Italsider in cui meno di una generazione ha lavorato per una apocalissi ambientale che ne ha annientate almeno due- l’abbaglio del facile arricchimento, della corsa al consumo di suolo, persone, cose...tutte cause nefaste della irresponsabilità, in cui il conto da pagare veniva posticipato ai figli e ai nipoti.
In questa folle corsa degli ultimi cinquanta anni, la bellezza è andata davvero sprecata per prima ai nostri occhi, permeando di rassegnazione ed apatia le nostre coscienze.
Da fuori -dai palazzi nobiliari, dai musei, dai capolavori-  dalle architetture di una città splendente, affacciata sul mare da terrazze di tufo, a capitale della spazzatura: una generazione dello scuorno, la vergogna come si dice qua, dell’annientamento della dignità.
Napoli ha vissuto decenni di purgatorio visivo: rimbalzata sulle tv con il caos dei sacchetti, come la capitale della camorra e dello spaccio, come un girone perduto in se stesso.
La bellezza sprecata del paesaggio sta in tutte le volte che camminiamo per le strade di quasi tremila anni e non lo comprendiamo: ce ne lamentiamo, e la lamentiamo in litania di compianto sul cadavere del Cristo velato e morto.
Poi tutti pronti a lodarne la “veracità”, con una nostalgia dei bei tempi che mai ci sono stati: è un abbaglio tornare indietro, alla memoria che fu, del come era bella una volta quando siamo inchiodati al presente che ci immobilizza.
Si nota a Napoli, oggi, una certa voglia di radice: innumerevoli le associazioni che lavorano sul territorio per promuovere la conoscenza della città. Una bella cosa: educare i napoletani ad amare il luogo in cui vivono è un primo atto di trasformazione; è un lavoro di coltura lungo che non si può esaurire in una sola generazione, ma parte dalla comprensione che la nostra crisi economica si vince solo vincendo tutti insieme.
Se lavora un operatore della cultura, lavora una pizzeria, un parcheggio, un museo, un bar e così via: lavora un circuito che non abbiamo ancora capito di dover curare per bene in questa città.
Potremmo permetterci una Napoli vivibile e civile, se iniziassimo a capire che questo circuito è la nostra fortuna e che non dobbiamo permettere alla stanchezza, alle logiche poco meritocratiche, alla solita zuppa insomma, di prevalere.
Tutto dipende dalla nostra capacità di creare, immaginare ed agire un futuro virtuoso.
Dalla bellezza sprecata del paesaggio, che esiste e forse è anche fisiologica -ma che agisce in un popolo anche a formare un carattere mite e solare, com’è quello partenopeo- possiamo trarre moltissimo per il futuro: dobbiamo solo avere il coraggio di crederlo, e agire di conseguenza.
Esistono posti più civili è vero, esistono città con meno problemi di questa Napoli, perchè esistono pratiche che la gente, il popolo che le abita, ha deciso di compiere insieme.
Di questo vittimismo di individui abbandonati dalla città che loro stessi concorrono a costruire, dapprima idealmente e poi fisicamente, possiamo farne a meno.
Occorrono sempre grandi cambiamenti e testimoni delle cose; occorre una volontà che superi l’ostacolo e occorre una cultura dell’uomo che dia speranza.
La speranza è sempre un atto fondante e creativo: inizia laddove immaginiamo che possa accadere un cambiamento positivo.
La bellezza sprecata del paesaggio, quella che distrattamente non vediamo, accade comunque fuori e dentro di noi: è la nostra eredità più bella e già seme di quello che verrà poi.
Tocca prendere attrezzi per dissodare un terreno crostoso nel campo collettivo dell'abbandono dell'identità.

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