Una noce non fa rumore, ma un sacco intero può (Sant’Agostino degli Scalzi)

Napoletani Noci di buona volontà
Una chiesa che rischia di chiudere per sempre è quasi la normalità a Napoli: delle 600 presenti in città solo 200 sono visitabili. Un rapporto uno a tre di perdita di capolavori, restauri mai iniziati e oblio come una spada di Damocle piantata già sulla testa.
E non è tanto l’iniziativa di ieri 7 settembre con l’apertura straordinaria di Sant’Agostino a dover esser rammentata, ma la possibilità che tutti i partecipanti siano da buon esempio per i concittadini: “mi appartiene”, anche se sono di altri rioni o quartieri, essi ci dicono con la loro muta presenza.
E’ questo sacco di noci che ottiene un articolo sul Mattino del giorno dopo, un video web, un blog, innumerevoli fotografie del complesso e dei singoli capolavori che ci deve far riflettere: è l’identità napoletana vera che striscia con forza sotto queste azioni e lavora sedimentando piano...questo ci deve colpire davvero.
Ci sono centinaia di chiese, strade, piazze, vicoli, e soprattutto persone, che dobbiamo far risuonare: milioni di noci che possono far rumore e trasformare le cose, lontani dalla rassegnazione, dal pessimismo, dall’apatia della crisi, dal “nulla cambia”.
Insomma, deve iniziare una nuova musica, una musica di noci nel sacco e fuori.
‘Na noce dint o sacc nun fa rummore, ma qual è poi il rumore delle noci: non è forse il frutto che meglio assomiglia al cervello?
Una noce è contenuta in una drupa: una scorza verde che poi la lascia andare.
Ma la noce non si apre da sola: bisogna schiacciarla per arrivare al seme più interno: e quel seme noi ce lo mangiamo (non è come una pesca insomma che pure drupa è, e che risparmiata può dare vita ad un nuovo pesco).
La drupa della noce è indeiscente, ovvero non si apre spontaneamente per far apparire il seme, quella polpa a forma di cervello protetta da una pellicola nerastra amarostica: qualcuno la toglie, altri no.Dipende dal gusto. Quella polpa che è il seme, noi ce lo mangiamo e non diventa noce: diventa noi.
Così la noce è una bella metafora: se ognuno è noce, diventa noce, lo fa aldilà della scorza e della durezza della corazza legnosa.
A me l’amaro piace, dà sapore alla vita; pare che le papille dell’amaro stiano nella parte posteriore della lingua; insomma bisogna aver già introdotto una parte del cibo per capire se amara è, e quanto, lo possiamo sapere solo dopo che sta già in bocca.
Per l’amaro, potendo una sostanza essere potenzialmente tossica, siamo particolarmente sensibili; ma come ogni tossico che si rispetti, esso può semplicemente celare l’antidoto.
E così, a me quella pellicina amarostica delle noci, specialmente delle noci fresche, piace assai perchè varia di tossico in tossico e mi rende gradevole la successiva noce.
Ora non dico che tutti debbano approvare l’amaro, ma certamente la noce è una bella metafora che il proverbio cela: una sola fa rumore sordo persino a se stesso.Un insieme di noci possono schiacciare.
E dunque una battaglia non è certo la guerra, ma sentirsi un esercito ha dato la vittoria a molti soldati numericamente svantaggiati,e ad uno, che doveva correre per avvisare Sparta che intervenisse per una volta a favore di Atene: Filippide corse a lungo, corse da Maratona, e dette l’annuncio: i Persiani, i barbari, erano vinti definitivamente grazie alla forza delle noci di Sparta ed Atene.
"Νενικήκαμεν" (Nenikékamen: "abbiamo vinto") gridò prima di stramazzare morto al suolo Filippide inviato da Milziade ad Atene a dare l’annuncio della vittoria, compiendo fino in fondo il suo dovere di ambasciatore che paga pena. A noi ovviamente basta meno.
Così, mi auguro che tra noci e maratone, un pò della nostra dignità napoletana ed europea ci faccia orgogliosi di una città che non può dimenticare i suoi monumenti importanti e soprattutto le sue stesse persone : questo fa la differenza nell’essere cittadini (e uomini, caporali e quaquaracquà) .
Per questa Napoli, per queste persone vale la gioia di sentirsi noce, velata di leggero amarostico.



-per il suggerimento del proverbio napoletano grazie a Stefano Manferlotti e Francesca Riccio.

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